Pubblichiamo questo testo di Antonella Bukovaz pensando che possa essere utile stimolo alla discussione di un tema cruciale, che il festival affronta nell'incontro di domenica 17 ottobre, "Sul confine":
La mia poesia nasce da lei, dalla terra in cui vivo, e lei guida la mia etica.
La mia terra resiste, nonostante la sua storia e forse proprio grazie alla sua storia, alle verità che vogliono affibbiarle. I suoi frammenti sono l’abbandono e un’esausta appartenenza, le armi di Gladio nascoste nei sagrati delle chiese, la malattia dei castagni arrivata dal cielo, precipitata dagli aerei americani durante la guerra, sono un fascismo fondamentalista e anacronistico che incita una difesa eterna che lascia senz’aria, un presente girato al passato… È terra di confine. Fine del mondo latino, da difendere, e inizio del mondo slavo, da cui difendersi. Questo confine è uno dei peggiori precipizi di quel senso d’onnipotenza di cui solo la mediocrità umana è capace.
Qui le manovre di annientamento, perpetrate soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, hanno avuto grande successo: paesi abbandonati, montagne inselvatichite, schizofrenia culturale, problemi d’identità… Essere cresciuta su un confine così massacrato dalla storia e all’interno di una minoranza linguistica (quella slovena) sempre impegnata a difendere i propri diritti, e viverci ancora oggi è per me fonte inesauribile di sentimenti contrapposti. Con la mia lingua madre, per esempio, ho una relazione complessa. Isolata per secoli da montagne arrotondate dal tempo, meticciata con il friulano e il tedesco, addolcita con sovrabbondanza di vocali dall’uso familiare e dai canti, l’ho recuperata che avevo già 20 anni. Ne ho una padronanza parziale, troppo poco per farne lingua del corpo. Così scrivo in italiano con un lieve peso sui bordi. Dalle mie parti la trattano come un tempio, ma io la penso come erranza e dimora insieme.
“Appartenere” a una minoranza significa risolvere la propria ricerca di senso, rimuovendo le tensioni interne alla comunità per riferirle a un oggetto esterno percepito solitamente come persecutore o comunque peggiore di noi. Si sprangano le porte, ci si chiude a difesa, non si diviene mai dei curiosi. La tradizione viene intesa solo nell’atto di conservazione e trasmissione senza quella componente che prevede un tradimento e permette crescita al mondo. Situazioni così complesse formano però un bacino di energie potenti sempre in movimento, capitale per una possibile e reale cultura della diversità, elemento corroborante per chiunque viva o voglia passare da queste parti. Andrea Zanzotto, sul “Piccolo” di Trieste tempo fa scriveva: “La memoria è minacciata non solo dalle spinte globali, per cui si fanno sparire migliaia di piante e migliaia di lingue minori o dialetti, ma anche dalla falsa difesa delle radici, dell’identità basata sul fraintendimento e dall’ignoranza che generano per contrapposizione i fondamentalismi localistici.” E questa è proprio la mia attenzione e se qualcuno mi chiede della mia identità dirò che mi identifico con il mio corpo e basta. L’identità è un’invenzione della modernità per ottenere un controllo politico e dividere gli individui, non voglio far parte di questo gioco. Sono a favore di un’etica del dubbio. Il dubbio, se accettato, ci fa pacificamente convivere con le cose della vita, che sono afferrabili ma non possiamo mai essere sicuri di con-prenderle. L’etica del dubbio mi dà la consapevolezza dell’imperfezione e che la profondità delle cose, pur se sondabile, è però inesauribile (da Contro l’etica della verità di Gustav Zagrebelsky).
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